Note di sport dal deserto – Il calcio e Zdenek Zeman

Il doping? Ma no, esiste solo nel ciclismo. Nel calcio non c’è, e anche se c’è è prescritto.

Le scommesse, le partite truccate, il riciclaggio di denaro? Sono una bufala ingigantita. E poi in serie A non c’è nessuna partita taroccata, semmai solo in serie B.

Calciopoli, intercettazioni telefoniche e affini? Mica c’entrano solo una squadra o due, lo fanno tutti. Ficchiamocelo bene in testa. E siccome lo fanno tutti va bene così.

Buchi milionari, mafia, procuratori truffaldini, televisioni piene e stadi vuoti, campionati spezzettati come un codice Morse? Eh sì, i tempi cambiano, e poi con la tv si sta al caldo e più comodi e l’importante sono i diritti televisivi che ripianano i debiti. La mafia? E che c’entra? 

Mi fermo qui per pudore, poiché di motivi per salvare la credibilità della baracconata pallonara proprio non ne trovo. Sarebbe da mandare affanculo all-inclusive, sperando che si schianti contro un muro di merda.

Ci hanno tolto pure questo, insomma.

Hanno mandato a puttane il sogno di quando eravamo bambini e giocavamo arditi per strada, in un cortile o se necessario anche nel corridoio di casa. E poi quando si finiva di tirare calci si cominciava con le figurine e l’album Panini. Dopodiché ci si piazzava davanti a Novantesimo Minuto, Domenica Sprint o alle telecronache di Pizzul. Con le ginocchia sbucciate o bene che andava sporche di terra e cemento. Con il sudore che spariva e riappariva magicamente, con il bagno che la mamma ci imponeva sempre tra mille lamentele.

C’era poesia, in quel tourbillon con al centro sempre la magica sfera che a volte assumeva le sembianze di uno svolazzante Super Tele o del più affidabile Super Santos. C’erano crudeltà e spietatezza, poesia, c’era la vita che diventava il nostro campo. No, non c’era internet e non c’erano gli sms. C’erano i dischi sì, e la tv per qualche ora. E per strada si poteva ancora scendere a giocare. Alle 19,30, però, tutti a casa senza bisogno di telefonate, che nella migliore delle ipotesi bastava un urlo genitoriale dalla finestra. C’erano altre passioni, questo è sicuro. Il calcio era una di quelle. Una passione. Vera. Vissuta col cuore. Sofferta.

Ecco perché dopo decenni, ancora, il pallone sgonfio che ci ritroviamo oggi esercita un fascino indelebile su chi l’ha amato da bambino. Nonostante tutto.

Per quanto mi riguarda, è solo grazie ad un allenatore se resto ancora attaccato alla speranza di redenzione di tal business malato. Un allenatore boemo chiamato Zdenek Zeman. Uno che fuma di continuo e parla poco. Però quando parla trafigge. Ed è pure mezzo biondo, tanto da ricordarmi qualcuno di cui non voglio fare il nome. No, non fa niente se i suoi modi di fare somigliano a quelli di quest’altro signore.

Perché Zeman mi tiene in piedi a suon di gol, che poi del calcio sono il pane, l’essenza. Lui rappresenta la mia riconciliazione settimanale con lo sport, la metrica applicata al campo, il canto della gioventù che ritorna. La parte pulita che non vuole abbassare la testa.

Zeman è il profeta scomodo, l’unico rimasto, l’unico in grado di proporre un’idea e di difenderla contro chiunque. Anche a costo di rimetterci la pelle. Anche a costo di pagare caro e venire emarginato, esiliato.

Zeman va all’attacco, sempre. Non mette mai il piede sul freno, come un Gilles Villeneuve del pallone. Sì, Zeman corre quasi fosse un pilota. E lo spettacolo viene prima di tutto, sempre, come nella vita, dove il pareggio è la maledizione del compromesso.

E’ esaltante veder volare le sue squadre (perfetta proiezione della sua immagine) composte esclusivamente da ventenni o da calciatori che hanno ancora “fame”, perchè i presunti campioni impomatati e velinari preferiscono girare spot piuttosto che sorbirsi la fatica, certificata e temuta, di una preparazione fisica zemaniana. Nessuno è capace di plasmare il gruppo come lui, il filosofo che mastica sorrisi senza cambiare espressione.

Zeman è l’utopia reale di concepire il calcio ancora come un gioco. Lo stesso che facevamo da bambini su un prato sgangherato di periferia.

Lui, ogni volta, cerca di restituirmi quel brandello di innocenza  e purezza con le meraviglie intessute sul rettangolo verde.

Zeman mi riporta indietro andando avanti.

Zeman mi fa amare quel che potevo essere.

E quello che ero.

Anche se allora non c’erano i gradoni.

Per fortuna.

Adios

Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez  

Note di cinema dal deserto – “I magnifici sette” di John Sturges (1960)

Non c’è niente da fare: ogni volta che guardo “I Magnifici Sette” il mio gasamento sale alle stelle.
Mi sembra di tornare bambino, esattamente a quando avevo nove, dieci o al massimo undici anni.
Scenario: i Mondiali di Calcio e l’Italia che si gioca la Coppa del Mondo.
Ricordo la trepidazione, l’eccitazione, la passione spasmodica che si può avere solo a quell’età.
Le stesse sensazioni che mi avvolgono all’apparire della formazione sullo schermo della tv.
Che fenomeni.
Epici.
Mi sembra di sentire persino la voce di Bruno Pizzul che scandisce i nomi, seguita da una serie di osanna infiniti:
McQueen.
Brynner.
Bronson.
Coburn.
Buchholz.
Vaughn.
Dexter.
Allenatore, il signor Sturges.  
Olè.
Poi arriva il turno del cattivo Eli Wallach (…) ed ecco piovere giù i fischi, che la parte di Calvera non è stata mai simpatica a nessuno.
Al posto dell’Inno di Mameli mettete la super colonna sonora di Bernstein e il gioco è fatto.
Tripudio.
La partita può avere inizio.
Anche se è la stessa ormai dal 1960, anno di uscita del film.
Anzi è la stessa dal 1954, stagione in cui il maestro Akira Kurosawa diede vita all’originale “I Sette Samurai”, opera più profonda e meno pulitina de “I Magnifici Sette”.
Lo so, il calcio è diventato uno spettacolo indegno e vuoto, popolato di marionette messe lì a ingigantire profitti esagerati.
Una metafora dura da rendere.
Infatti le somiglianze si fermano qui.
A quel manipolo di uomini che si scannava per lo scudetto e poi, d’estate, ogni quattro anni lì vedevi che sembravano amici da una vita, leali ed uniti nell’abbattere un nemico sempre nuovo.
Oggi invece sono solo merce di plastica in procinto di scadere.
O forse lo erano già allora, solo che io non me ne rendevo conto.
E allora mi consolo con gli eroi eterni dal grilletto facile.
Gente che non delude mai.
Orgogliosamente.
Combattenti senza calcoli, alla garibaldina, disposti a difendere un popolo che neanche li vuole.
Pronti a scagliarsi per un principio, liberi dalla paura di apparire obsoleti.
Senza una lira, roba che in una drogheria si guadagna di più.
Così pieni di nostalgia, solitudine e piombo.
Vagabondi ad avvenire zero, condannati a misurare la velocità di una pallottola per restare vivi.
Questo siamo, che dentro mi ci voglio mettere pure io.
Fucili caricati a salve quando l’aria si fa pesante.
Esplosioni improvvise ed attese.
Per niente.
Ma poco importa.

Finché torneremo indietro per difendere un letamaio.
Finché lotteremo per farci portare un fiore da un bambino.
Finché ci batteremo per dare la giusta sepoltura ad un essere umano.
Finché Yul Brynner e Steve McQueen cavalcheranno senza voltarsi.
Finché noi perderemo.
Sempre.
Senza farci mai sconfiggere.
Adios
Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez