Note di cinema dal deserto – “I magnifici sette” di John Sturges (1960)

Non c’è niente da fare: ogni volta che guardo “I Magnifici Sette” il mio gasamento sale alle stelle.
Mi sembra di tornare bambino, esattamente a quando avevo nove, dieci o al massimo undici anni.
Scenario: i Mondiali di Calcio e l’Italia che si gioca la Coppa del Mondo.
Ricordo la trepidazione, l’eccitazione, la passione spasmodica che si può avere solo a quell’età.
Le stesse sensazioni che mi avvolgono all’apparire della formazione sullo schermo della tv.
Che fenomeni.
Epici.
Mi sembra di sentire persino la voce di Bruno Pizzul che scandisce i nomi, seguita da una serie di osanna infiniti:
McQueen.
Brynner.
Bronson.
Coburn.
Buchholz.
Vaughn.
Dexter.
Allenatore, il signor Sturges.  
Olè.
Poi arriva il turno del cattivo Eli Wallach (…) ed ecco piovere giù i fischi, che la parte di Calvera non è stata mai simpatica a nessuno.
Al posto dell’Inno di Mameli mettete la super colonna sonora di Bernstein e il gioco è fatto.
Tripudio.
La partita può avere inizio.
Anche se è la stessa ormai dal 1960, anno di uscita del film.
Anzi è la stessa dal 1954, stagione in cui il maestro Akira Kurosawa diede vita all’originale “I Sette Samurai”, opera più profonda e meno pulitina de “I Magnifici Sette”.
Lo so, il calcio è diventato uno spettacolo indegno e vuoto, popolato di marionette messe lì a ingigantire profitti esagerati.
Una metafora dura da rendere.
Infatti le somiglianze si fermano qui.
A quel manipolo di uomini che si scannava per lo scudetto e poi, d’estate, ogni quattro anni lì vedevi che sembravano amici da una vita, leali ed uniti nell’abbattere un nemico sempre nuovo.
Oggi invece sono solo merce di plastica in procinto di scadere.
O forse lo erano già allora, solo che io non me ne rendevo conto.
E allora mi consolo con gli eroi eterni dal grilletto facile.
Gente che non delude mai.
Orgogliosamente.
Combattenti senza calcoli, alla garibaldina, disposti a difendere un popolo che neanche li vuole.
Pronti a scagliarsi per un principio, liberi dalla paura di apparire obsoleti.
Senza una lira, roba che in una drogheria si guadagna di più.
Così pieni di nostalgia, solitudine e piombo.
Vagabondi ad avvenire zero, condannati a misurare la velocità di una pallottola per restare vivi.
Questo siamo, che dentro mi ci voglio mettere pure io.
Fucili caricati a salve quando l’aria si fa pesante.
Esplosioni improvvise ed attese.
Per niente.
Ma poco importa.

Finché torneremo indietro per difendere un letamaio.
Finché lotteremo per farci portare un fiore da un bambino.
Finché ci batteremo per dare la giusta sepoltura ad un essere umano.
Finché Yul Brynner e Steve McQueen cavalcheranno senza voltarsi.
Finché noi perderemo.
Sempre.
Senza farci mai sconfiggere.
Adios
Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez

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