Note di cinema dal deserto – “Titanic” di James Cameron (1997)

 
 

E’ inutile negarlo: prima o poi, nella vita, bisogna fare i conti col Titanic.

Non serve a niente calarsi nella parte dei duri o tirarla per le lunghe “perché i film sdolcinati sono una schifezza”.

Lasciate perdere.

Che tanto prima o poi su quella nave si sale tutti.

Tutti.

Signorotti e straccioni.

Puttane e regine.

Pittori da due lire o boss multimiliardari.

Caldaisti spiantati o musicisti al palo.

Nessuno resta escluso.

Nessuno può scendere.

E nessuno può considerarsi inaffondabile.

 
 
 

Allora fateveli due conti, già che ci siete.

Perché tanto capiterà, prima o poi, di fare un salto nel buio di un mare gelato.

Di lottare con tutte le forze per restare a galla, per sostenere l’anima della persona amata.

Di suonare una canzone fino alla fine, fino a morirne.

Di chiudere il ricordo dentro una tasca sfondata. 

Di guardare due occhi e scoprirci dentro quel che resta.

Di sentire che fuori fa un freddo ghiaccio, ma dentro no.

 
 

Ebbene io i conti me li sono fatti, ieri l’altro, perché è inutile parlare se poi non si dà l’esempio.

Ho aspettato 14 anni per tirare questa riga col Titanic, che forse non sarà neanche l’ultima.

E mi sono scoperto ancora lì, a scrutare la figura pienotta e impacciata di Rose, imperfetta faccia di Kate Winslet che non ho mai capito perché mi piace così tanto.

Ho sorriso davanti alle espressioni da branzino di Jack, un DiCaprio che, chi l’avrebbe mai detto allora, occasione dopo occasione si è trasformato in un vero attore. In un campione.

Ho tremato davanti a due vecchi stesi sul letto. Abbracciati.

Ho stretto il cuore davanti all’orchestra che suona. Senza fermarsi mai. Come la Musica. Nostra Dea.

Ho soffiato anche io davanti al fischio che rimane attaccato all’attimo.

Davanti a scialuppe vuote che non vanno da nessuna parte.

Come noi.

E poi sì, ho pianto davanti alla corsa impazzita di due ragazzi: fulgida, argentea, una fiammata, una scarica, un anelito di libertà, la ribellione, l’eternità, lo scacco matto, la parola nuova.         

 
 

Eppure mi sembrava tutto troppo uguale e diverso rispetto a tanti anni fa, quando mi feci tutta la strada a piedi col Biondo per andare a vedere questo mega film che aveva schiavizzato tutto il pianeta.

Sì, ne è passato di tempo.

Sarà per questo che i conti, stavolta, sembrano tornare.

Perché adesso ho capito due cose.

Non è necessario l’oceano per affondare.

A volte basta pure un deserto. 

E non occorre tuffarsi per salvare qualcuno.

A volte basta un bacio.

Uno solo.

Adios
Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez

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