Note di cinema dal deserto – “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti (2016)

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Questa storia, con tutte le debite e necessarie distinzioni, mi pare di averla già sentita.

C’è un genere cinematografico prettamente targato Usa in debito d’ossigeno, che inizia a faticare ed annoiare (anche se a livello commerciale “tira” ancora), vittima di se stesso e sempre più senza idee in grado di coinvolgere veramente, fotocopia che, eccetto qualche raro caso, non appassiona più.

Quando tutto sembra perduto, però, ecco il barlume di luce che arriva da dove non ti aspetti, la speranza del ritorno ai fasti che viene dall’outsider, da una cartolina scritta a penna che dice “Europa – Italia – Roma, quartiere di Tor Bella Monaca”.

Sicuramente un luogo poco avvezzo a trattare i supereroi sul grande schermo.

Come non era avvezzo a trattare il grande cinema western ai tempi di Sergio Leone, anno domini 1964. Ma come detto in avvio si tratta di un’altra storia.

Questa di Lo chiamavano Jeeg Robot è altro.

Ugualmente, grandemente piacevole. Popolare, potente, bestiale, ansimante come il tarchiato Claudio Santamaria che corre per le strade della Capitale nel film diretto da Gabriele Mainetti, coraggioso esordiente regista che (d)osa quando deve e non sbaglia un colpo (sue anche le musiche, insieme a Michele Braga), tra immaginari prettamente anni ottanta che però non tagliano fuori chi i riferimenti non coglie (non a caso lo stesso protagonista del film, giusto per fare un esempio, all’inizio non sa nemmeno chi sia Jeeg Robot) ed effetti speciali che non invadono, personaggi credibili e atmosfere di periferia aderenti, commozione e azione, gas a manetta e passi felpati, carezze e pugni, sguardi e maschere di lana.

E’ una storia scritta bene quella di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, attenta ad evitare i cliché pur trattando materia potenzialmente esposta a tale rischio, una storia che sceglie a dovere le sue facce consegnando definitivamente alla memoria il fuoriclasse Luca Marinelli nella parte del cattivo (è già cult la scena in cui si esibisce in “Un’emozione da poco” della Oxa) e lancia Ilenia Pastorelli, la sorpresa, uno veri cuori del film, un misto di disincanto, emarginazione e stupore capace di penetrare la scorza del misantropo protagonista, un Santamaria umano, chiuso, rassegnato, perfetto nella sua voglia di “sparire” contrapposta all’ossessione di farsi vedere, alla malattia dell’esserci solo se si è immagine, simbolo (o filmato di Youtube) che perseguita lo Zingaro-Marinelli.

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Ci sarebbe da scriverne, e molto, magari con qualche altra visione sul groppone.

Tempo ce n’è perché il film è appena uscito e sta avendo un buon successo, tanto che si parla già di sequel, di trilogia eccetera.

Non so dove, ma questa storia l’ho già sentita.

E comunque va già bene, benissimo così.

Adios
Tuco Benedicto Pacifico Juan Maria Ramirez